Dopo la premiere al Festival di Venezia (dove il suo regista/sceneggiatore/co-produttore Brady Corbet ha vinto il Leone d'Argento per la regia), è arrivato nei cinema il maestoso, titanico, monumentale The Brutalist, ultima opera (forse termine ancora più azzeccato all'oggetto di film) del visionario autore statunitense (ex attore bambino in Thireteen, tra l'altro).
The Brutalist è il suo terzo film da regista ed è candidato a 10 Oscar. Ha già vinto due Golden Globe (Miglior film drammatico e Miglior regista). Un film davvero "monumentale" come l'hanno definito in tanti, dal Guardian all'Hollywood Reporter: per le dimensioni (è lungo 215 minuti), perché girato in 35mm con pellicola VistaVision (scelta vintage e rivoluzionaria insieme), per la storia e la sua ambientazione.
Adrien Brody interpreta il visionario architetto Làszlò Toth (non esiste, ma è la summa/omaggio a tanti architetti europei ebrei di inizio Novecento), in fuga dall'Europa del dopoguerra. Quando arriva in Pennsylvania, un ricco industriale (molto simile a Rockfeller e interpretato da Guy Pearce) riconosce il suo talento per l'edilizia. Ha detto Brody, ospite anche di Che tempo che fa: «Tutti quanti vorremmo essere accettati, sentirci a casa, liberi da qualsiasi tipo di persecuzione, rispettati, non esclusi. Il film tocca tutti questi temi: alcune persone devono fuggire da condizioni terribili, vengono negli Stati Uniti e sperano in una vita migliore. Non è una questione semplice, spesso ci sono condizioni difficili da sopportare, è una cosa che conosco: mia madre e i miei nonni sono venuti qui dall'Europa negli anni '50, hanno perso tutto e ricominciato da zero. So quanto gli sia costato e quanto abbiano lottato». Il riferimento è alla madre, fotografa ungherese scappata da Budapest dopo l'entrata dei carri armati sovietici nel 1956.
Il film di Corbet tocca anche temi come aspirazioni e lasciti degli artisti. Continua Brody: «Io stesso sono cresciuto con questo desiderio di realizzazione, e probabilmente è nella natura dell'artista avere sempre questa specie di sete. Hai sempre il desiderio di fare qualcosa di speciale, di significativo, ma che non dipende solo da te. Credo che il motivo per cui faccio questo mestiere è proprio il desiderio di lasciare qualcosa che parli della condizione umana, qualcosa con cui le persone possano sentirsi connesse».