«Quando i clandestini eravamo noi: chiusi in casa, senza poter giocare, cantare o piangere»

2015-06-18 8

Si raggomitolavano dentro i cofani delle auto per superare il confine, si rinchiudevano dentro l’armadio quando la polizia bussava alle loro porte, restavano barricati in casa per mesi interi, senza vedere mai la luce del sole. Non si affacciavano alla finestra per paura di essere visti, non potevano giocare, non potevano cantare, non potevano piangere a voce alta, non potevano andare all’ospedale, non potevano andare a scuola, non potevano far rumore dentro le loro case perché rischiavano di essere scoperti, denunciati, espulsi. Clandestini, così venivano chiamati i bambini italiani nella Svizzera degli anni Settanta, quando le leggi governative impedivano i ricongiungimenti familiari alle decine di migliaia di lavoratori stagionali italiani che andavano oltralpe per sbarcare il lunario. Muratori, operai, imbianchini, saldatori, agricoltori. Migranti allo stato puro, lavoratori stagionali a cui era impedito portarsi dietro i figli (tranne nei mesi estivi), costretti a restare in Italia lontano dai propri genitori per moltissimo tempo. Leggi severissime, quelle svizzere, trasgredite da almeno 15 mila italiani. Portavano i loro figli in Svizzera clandestinamente, pur di non lasciarli da soli in Italia. Li nascondevano nelle valigie per superare la frontiera, oppure nei bauli delle macchine, magari rannicchiati tra i ferri del motore. Quarant’anni fa, i clandestini eravamo noi. Braccia ruvide dedite al lavoro nei campi, nelle fabbriche, per le strade. Spesso discriminati, emarginati dalle politiche, numeri più che uomini, accusati di rubare il lavoro agli svizzeri. Qualcuno dormiva in baracche, altri si ammassavano negli appartamenti, dentro stanzoni fatiscenti e sovraffollati, tra materassi e valigie. Baraccati, sporchi, nomadi. «Eravamo i negri dell’epoca», racconta tristemente Renato, uno dei bambini cresciuti in clandestinità. Gli italiani lavoravano dieci, dodici ore al giorno. E durante la giornata, i loro figli piccoli dovevano chiudersi in casa, senza fiatare. «Avevo dieci anni, ero in casa e mi feci male al braccio – ricorda Egidio Stigliano, oggi over 50 –. L’ospedale era vietato, mi avrebbero scoperto, così mio padre inventò un’ingessatura rudimentale». I segni di quell’ingessatura sono visibili ancora oggi, lungo quel braccio invalido e ricurvo che si piega malamente. «È doloroso ricordare il passato, ma spero che la mia storia possa contribuire a migliorare le condizioni di chi è clandestino oggi», racconta Catia Porri, cresciuta a Zurigo in una stretta mansarda di periferia. «Attraversai il confine pigiata nel cofano nell’Alfa Romeo di mio padre, avevo il terrore che mi scoprissero. Al confine sentivo i poliziotti svizzeri che urlavano minacciosamente agli italiani: “Avete bambini?”». Poi l’adolescenza claustrale, chiusa in 30 metri quadrati. «Restavo tutto il giorno a letto, senza camminare perché il pavimento scricchiolava e i vicini si sarebbero potuti accorgere della mia presenza. Per fare i bisogni, anziché andare in bagno, utilizzavo un vaso da notte». E poi c’è Rosa, un’altra bambina italiana che ha trascorso l’infanzia nascosta in due stanze insieme agli otto fratelli: «Ci arrangiavamo in quel poco spazio, testa e piedi incastrate per riuscire a dormire». Fino a quando furono scoperti dalla polizia: «Ci caricarono tutti sul treno e ci rispedirono in Italia». Le storie dei bambini italiani clandestini sono state raccolte dalla scrittrice Marina Frigerio nel libro «Bambini Proibiti». Lei è psicoterapeuta infantile e nel corso degli anni Settanta ha assistito numerosi piccoli italiani: «L’infanzia in clandestinità li ha segnati, hanno sviluppato difficoltà nel linguaggio perché non parlavano mai con nessuno. Molti hanno tutt’ora disturbi del sonno, quando erano clandestini avevano attacchi di panico durante la notte. Altri hanno sviluppato un senso di inferiorità e qualcuno soffre di solitudine». Un’infanzia nascosta che li ha segnati per sempre, che oggi torna a galla quando accendono la televisione: «Quando sento accuse gratuite verso i clandestini africani – racconta Egidio Stigliano – mi fa veramente male, perché quelle ingiurie le ho subite sulla mia pelle. Noi italiani abbiamo la memoria corta, ci farebbe bene ricordare il nostro passato recente per trattare con più dignità i profughi di oggi, in fuga dalla miseria proprio come lo eravamo noi».

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