AALOUA (Siria settentrionale)_ Totale dedizione alla causa del popolo curdo siriano in lotta contro Isis. Non esiste sfera privata, se non quella della condivisione con le compagne delle poche cose che possono mettere nello zaino: un pettine, il sapone, lo shampoo, un ricambio di vestiti. «Abbiamo scelto di essere soldatesse. I nostri compiti e doveri sono esattamente eguali a quelli dei commilitoni uomini. Facciamo i turni di guardia come loro, andiamo in pattuglia di notte come loro, rischiamo allo stesso modo. Siamo donne combattenti a tutti gli effetti», raccontano le volontarie dello Jpj, che sta per Unità di Autodifesa femminili, quasi la metà della forza combattente dei curdi arroccati nella loro enclave indipendente nelle zone nord-orientali della Siria. Sono circa 10.000 soldatesse. «Il nostro numero è cresciuto specialmente dopo il giugno-agosto 2014, quando vennero alla luce le gesta criminali dei terroristi di Isis contro le donne yazide, violentate, ridotte a schiave sessuali, usate e uccise», raccontano. Le abbiamo incontrate ovunque schierate nelle loro regioni. Anche sul fronte direttamente in prima linea nella zona a nord di Raqqa, la capitale del Califfato. Nella cittadina di Aaloua, deserta e sconvolta dalla guerra, vivono in gruppi di cinque o sei tra le casupole utilizzate come basi. Sui muri i ritratti dei loro compagni e compagne morte. In particolare spicca quello di Arin Mirkan, la ragazza poco più che ventenne assurta a leggenda quando durante la battaglia per Kobane decise di farsi saltare in aria pur di non venire catturata. «Arin aveva finito i proiettili. Gli uomini di Isis l’avevano circondata. E fece la scelta giusta: altrimenti sarebbe stata violentata, schiavizzata e alla fine uccisa nel peggiore dei modi. Noi nelle sue condizioni faremmo come lei. Non avremmo alternative», spiegano due ventenni, Ani Zerin e Ani Sihaian. Per loro non c’è alcun dubbio: il popolo curdo è in pericolo, Isis rappresenta una minaccia immanente che richiede il sacrificio di tutti per combatterlo. I dettami dell’organizzazione sono rigorosi. «Le donne che decidono di indossare la divisa non possono essere sposate, né tantomeno avere figli. Proibiti anche gli amori con i nostri compagni soldati. La cosa è vietata assolutamente. Se venisse scoperta verremmo processati assieme ed espulsi. Ma questo in genere non avviene. Da quando siamo soldatesse non abbiamo sentito di alcun caso del genere. Non possiamo perché tutta la nostra concentrazione va dedicata all’obbiettivo prioritario della lotta contro Isis». Ammettono che la loro è una missione volta anche a vendicare le donne che sono vittime dei jihadisti. Con un’arma in più. «I nostri nemici sono convinti che se verranno uccisi da una donna non avranno la dignità di martiri meritevoli il paradiso. Dunque quando ci vedono scappano, ci evitano. Una buona ragione per noi di stare al fronte». La sera intensificano le guardie. Con il buio aumentano i tentativi di attacchi da parte del nemico che sta nascosto una decina di chilometri più a sud. Il villaggio privo di luce elettrica viene avvolto dall’oscurità. Le donne lubrificano i fucili e ci ordinano di tornare alle retrovie. Le strade di collegamento possono essere facilmente minate.