Roma, 25 ott. (askanews) - La qualità della vita e una sindrome che non lascia quasi speranza. La speranza però non si trova solo nella ricerca, ma anche nelle cure di chi si prende cura delle persone. Perché il paziente chiede una medicina cucita su misura."Celebriamo la giornata mondiale della mielodisplasia - ha spiegato ad askanews Pino Toro, presidente dell'Associazione italiana contro leucemie, linfomi e mieloma, Ail - una patologia che un tempo riguardava pochissime persone, ma oggi è molto più presente anche perché l'aspettativa di vita è aumentata. E' una patologia che coinvolge pazienti oltre i 70 anni, ma stiamo avendo risultati interessanti con le nuove terapie".La cura quindi passa attraverso le terapie, ma non può prescindere anche da altri elementi."La sindrome mielodisplastica - ha aggiunto la professoressa Esther Natalie Oliva, ematologa dell'Ospedale BMM di Reggio Calabria - è una malattia spesso incurabile ed il medico è chiamato ad accompagnare il paziente nella vita. Per cui la valutazione della qualità di vita nel percorso decisionale terapeutico è importante perché integra le scelte del medico con le preferenze del paziente, nel contesto in cui vive e nella situazione emotiva e sociale in cui si trova".I dati di un sondaggio voluto da Aipasim - associazione italiana pazienti sindrome mielodisplastica indicano che le persone colpite hanno una età media di 73 anni. Per la metà degli intervistati "la malattia interferisce troppo sulla vita di tutti i giorni" e "il lavoro diventa più faticoso" e la salute risulta "appena accettabile"."Noi - ha aggiunto Pino Toro - possiamo andare da sostegni di tipo pratico ad aiuti sul piano psicologico e morale. Il nostro primo obiettivo deve essere quello di prevenire, cioè creare strumenti che non possono aggravare la qualità della vita. E' inutile dire che curare dal punto di vista medico una persona fragile, sola, come spesso sono gli ultra settantenni oggi, senza assicurare presidi di altro tipo è diciamo un lavoro fatto a metà".In base all'indagine effettuata un terzo degli intervistati preferisce le terapie domiciliari, ma "il 40 per cento vuole essere trattato in un centro ematologico"."Raccogliere queste informazioni - ha detto Marco Vignetti, presidente della fondazione Gimema e vicepresidente Ail - non solo ci offre degli importanti elementi per capire come sta il paziente e come vive la sua malattia. Ma ci offre anche delle informazioni che permettono di prevedere l'evoluzione della malattia, e questa è stata una grande sorpresa. Così è possibile indirizzare il paziente verso le cure più giuste per il suo caso. Non soltanto la genetica molecolare, ma anche gli elementi raccolti con la qualità di vita intervistando direttamente un paziente"."La ricerca sta facendo passi da gigante - ha concluso il presidente Toro - soprattutto si va verso una guarigione, che è anche una cronicizzazione".E il dato importante è che l'aspettativa di vita dei pazienti diventa sovrapponibile a quella di qualunque altra persona.