È un vuoto istituzionale che viene riempito, dopo due anni e mezzo di vacanza.
Il 23 aprile del 2014 il parlamento libanese non riusciva a eleggere il successore di Michel Suleiman, il cui mandato terminava il 25 maggio.
All’epoca il candidato cristiano maronita, Samir Geagea, non otteneva la maggioranza dei 2/3.
La struttura istituzionale del Paese si basa su un attento equilibrio che rispetta la rappresentanza dei 3 principali gruppi religiosi: il presidente è un maronita, il presidente del parlamento è un musulmano sciita e il premier è un sunnita.
Il presidente della Repubblica riveste un ruolo di arbitro e anche se le sue prerogative sono state notevolmente ridotte per 45 volte il parlamento nel corso di questi due anni non è riuscito a eleggerlo.
Il gioco delle alleanze ha fatto sì che fino a questo momento non venisse raggiunto il quorum.
Alla crisi istituzionale e alla paralisi politica è seguita quella sociale cui si si sono aggiunte le sfide internazionali come il milione di profughi giunti in Libano dalla Siria.
È in questa situazione che lo scorso gennaio Samir Geagea, cristiano maronita ma rivale di Aoun, dà il suo sostegno.
Ma è l’appoggio di Saad Hariri, il 20 ottobre scorso, a mettere fine all’impasse.
Figlio di Rafik Hariri, ucciso nell’attentato del 14 febbraio 2005, Saad è stato premier, in quota ai musulmani sunniti, sostenuti dall’Arabia Saudita.
Anche gli sciiti, per bocca di Hassan Nasrallah, leader di Hezbollah, lo scorso 23 ottobre, hanno aperto in favore di Aoun.
Cosa significano queste aperture?
Nabil Boumonsef editorialista di An-nahar
“Il libano non è più prioritario per l’Arabia Saudita e l’Arabia Saudita non sostiene più i suoi alleati libanesi, un mancato appoggio che ha indebolito i sunniti di Hariri”.
L’impressione di molti analisti è che l’accordo con Aoun sia stato l’ultimo tentativo di Hariri per assicurarsi la sopravvivenza politica.
Tutti concordano nel dire che il vero test per il Libano verrà adesso con la formazione del nuovo governo.