Dal “riposa in pace genio” di Robbie Williams a “il mondo è meno funky” di Simon Le Bon, fino al tweet di Noemi: “ci sono saluti che non vorremmo fare mai”, le star di ogni livello e categoria reagiscono alla notizia della morte di Prince con un misto di stupore, tristezza e rassegnazione.
È il terzo “big” della musica mondiale ad andarsene in un’età relativamente giovane quest’anno: dopo David Bowie, morto l’11 gennaio scorso a 69 anni, se ne è andato in marzo anche Keith Emerson, di appena due anni più anziano.
E ora Prince, 58 anni ancora da compiere.
Roger Nelson per l’anagrafe, Prince per il resto del mondo, era di Minneapolis, la città in cui è morto, ed era uno di quei geni inclassificabili, impossibili da incasellare: era un virtuoso della chitarra, il re del falsetto, tastierista, anche discreto batterista, compositore, arrangiatore e pure produttore. Era l’ultimo grande della generazione black di James Brown, Stevie Wonder, Curtis Mayfield, incardinava e fondeva jazz