Ormai era soltanto una questione di tempo. Dopo aver perso metà del suo valore dai picchi dello scorso giugno, il petrolio ha finalmente oltrepassato la soglia psicologica dei 50 dollari al barile. Alla debolezza della domanda globale (rallentamento cinese e stagnazione europea) si sono sommati ulteriori timori che il pianeta sia letteralmente “sommerso” di oro nero.
La produzione russa è ai massimi nonostante le sanzioni occidentali e persino gli Stati Uniti a novembre hanno segnato il record storico delle esportazioni. Risultato: soltanto nell’ultimo mese il Brent, il greggio di origine nordeuropea, ed il WTI, quello americano, hanno perso entrambi oltre il 25%.
“Prima di Natale si diceva quanto positivo per i consumatori e che spinta per l’economia globale fosse questo calo”, commenta Mike Ingram di BGC. “Come ho detto allora – aggiunge – la dinamica ha effetti collaterali molto spiacevoli. Tra questi, le possibili tensioni geopolitiche generate da alcuni dei maggiori produttori di petrolio, penso ad esempio alla Russia”.
Nonostante segnali di stabilizzazione, c‘è chi arriva a prevedere un calo fino ai 40 dollari al barile. Scenario che, per gli esperti, nuocerebbe ai produttori spostando l’ago della bilancia a favore delle nazioni consumatrici. Esempio? Il Pil delle Filippine, secondo i calcoli, potrebbe accelerare del 7% nei prossimi due anni, quello della Russia crollare di oltre il 3,5%.