Lampedusa: migranti del centro di accoglienza in sciopero della fame

2013-11-08 1

I profughi palestinesi-siriani del centro di prima accoglienza di Lampedusa.sono in sciopero della fame da due giorni Protestano contro il divieto di lasciare il centro, nel quale vivono dall’inizio di ottobre.

Altri profughi, giunti dopo di loro, sono potuti ripartire, ma non loro. Questi palestinesi provenienti dalla Siria non vogliono restare in Italia, la loro terra promessa è il nord dell’Europa, in particolare i paesi scandinavi.
“Facciamo lo sciopero della fame, solo un po’ d’acqua, per vivere”, dice in un inglese incerto uno di loro. Un altro profugo: “Per me e i miei amici: da qui verso un futuro migliore o da qui verso un ospedale, per morire. Oppure lasciateci tornare in un paese arabo con un’imbarcazione. Purtroppo l’Unione Europea mente quando parla di aiutare i siriani e i palestinesi. Dovrebbero essere più responsabili circa le loro promesse”

Il centro di Lampedusa ha una capienza di 250 persone, attualmente ne ospita quasi il doppio, per la maggior parte siriani ed eritrei.
Tra le due comunità le relazioni sono tese. Per esempio, non vogliono condividere le stesse stanze, e questo crea grossi problemi a livello organizzativo.

Spiega un migrante: “Con questo sciopero chiediamo il rispetto dei nostri diritti. Ci sono persone che sono qui dal 14 ottobre e vogliono andarsene via. Vivere qui non è possibile. Non si puo’ restare qui più di 3 o 4 giorni”.

Nel centro di accoglienza lavorano 65 persone, tra cui un medico e due assistenti sanitari. Antonio Miragliotta è il direttore della struttura. “Qui abbiamo psicologi, assistenti sociali e mediatori culturali – dice Miragliotta. – La loro missione è cercare di ridurre le tensioni che inevitabilmente si creano in un centro come questo di Lampedusa, dove le perone sono in attesa di essere traferite altrove il più rapidamente possibile”.

In teoria i migranti dovrebbero passare nel centro di prima accoglienza non più di tre giorni. In pratica vi restano per almeno venti giorni, e talvolta anche di più.

Un tempo che questi profughi passano sospesi in una sorta di limbo: isolati dall’informazione, da una qualsiasi attività, nell’attesa di conoscere dove sarà il proprio futuro.